Saggi |
Pio Rajna
Il Dialetto Milanese
(Estratto dal volume "Milano" edito da
G.Ottino, 1881) |
Opera naturale è ch'uom favella; Ma così e così, natura lascia Poi fare a voi, secondo che v'abbella. (DANTE,
Par., XXIV, 130) Di questa licenza, che la
Natura si è graziosamente degnata di concederci, nessuna nazione usa così
largamente come l'italiana. Anche per cotale rispetto, la nostra è l'unità
più varia che ci si possa figurare; per poco che s'andasse più in la, l'unità
stessa se ne andrebbe a spasso. È un bene ? è un male? C'è
il suo bene e il suo male di sicuro; se più dell'uno o dell'altro, giudichi
ciascuno da sò; non voglio cominciare a esprimere un giudizio, che, qualunque
poi fosse, mi metterebbe subito in disaccordo con una metà dei lettori. Le cause sono, come sempre, assai complesse;
fisiologiche e storiche le principali. Il linguaggio latino, propagato dalla
maravigliosa espansione romana, s'incontrava con una moltiplicità di favelle
indigene, e per conseguenza di abitudini e di attitudini glottiche. Delle
prime trionfò completamente; a quest'altre invece, che lo osteggiavano
sordamente ed inconscie, dovette piegarsi. La lingua di Roma suonò dunque
dappertutto, ma con pronunzie svariate; come suona diverso l'italiano sopra
labbra piemontesi, venete, lombarde, napoletane, e così via. Questo sono cause
fisiologiche: le storiche sono chiare a tutti. Spezzata l'unità latina,
l'Italia si ridusse a vivere di cento vite diverse. Dell'unità conservò bene
un sentimento, ed anche qualche manifestazione esteriore; anzi, gli spiriti
eletti lo conservarono tanto cotesto sentimento, che, quando rifiorirono gli
studi, una sola lingua, una sola letteratura diventarono presto la lingua e
la letteratura italiana. Ma gli spiriti eletti sono sempre pochi, e gli usi
letterari sono ben lontani dall'essere i principali a cui serve un
linguaggio; per ogni parola che si scrive, se ne pronunziano, e più se
pronunziavano nei tempi andati, migliaia e milioni. Così i dialetti esistettero
virtualmente fino dall'età stessa della grandezza romana: il tempo a poco a
poco li dischiuse. A seconda delle condizioni, qui prima, là poi, da pure
varietà di pronunzia diventarono qualcosa di individuale. Quando, nessuno
s'attenterebbe a determinare. Contentiamci dunque che anche il dialetto
milanese ci venga davanti sfornito della fede di nascita. Certo peraltro gli
crederemo, se affermerà che la sua famiglia sia tra le più antiche della
tribù. Cotesta famiglia è quella dei dialetti gallo-italici, costituitasi '
nell'ampio territorio dominato per un lungo periodo da popolazioni celtiche,
e propriamente galliche. Ora non par dubbio che il substrato celtico, per
dirla col linguaggio di un nostro illustre, sia stato di tutti forse il più
sovversivo; che cioè le bocche avvezze alle favelle celtiche siano state
pessima pronunziatrici del latino. Ma lasciando anche stare
tutta la vita preistorica, il milanese ne ha una storica e riccamente
documentata di più che cinque secoli; chè tanti ne abbraccia la sua
letteratura, da Pietro de Bescapè e fra Bonvisin da la Riva ai nostri giorni. Nella vita letteraria del
milanese distinguerci due periodi, che rispondono a due intendimenti diversi.
Nel primo il dialetto ha una corta qual pretensione di esser lingua, e avanti
di comparire, in pubblico, sia pure tra gente volgare, cerca di farsi bello.
Così è che il milanese di Pietro e di Bonvicino è un milanese difforme di
sicuro in molte cose dal parlare usuale: spesso rimette a posto, o raddrizza
vocali e consonanti, cadute o degenerate; non cerca in nessun modo di
rappresentare il suono dell'o come se nemmeno esistesse; elimina vocaboli
indigeni, ne accetta di estranei. A questo milanese ripulito
ecco togliere ogni ragion d'essere la prevalenza letteraria del toscano. A
poco a poco chi scrive prende a servirsi di quel volgare, o almeno a
volersene servire. Spropositerà incredibilmente; ma qui, più che mai, basta
anche solo l'intenzione. Ed ecco che già al declinare del secolo XIV la
catastrofe di Bernabò Visconti sarà narrata, non nei ritmi locali e in
dialetto levigato, ma in ottave, e in un gergo, che vorrebbe pur essere la
lingua di Dante, o almeno dei cantastorie d'oltr'appennino. Sennonchè, accanto alla
letteratura scritta, ce n'era di sicuro già da tempo, una semplicemente
recitata, popolare, non solo perché destinata al, popolo, ma anche perché
opera esclusiva - di popolani. Questa non aveva ambizioni, nè si vergognava
di mostrarsi nei suoi cenci d'ogni giorno. O
perchè se ne sarebbe vergognata? Coll'andar del tempo anche la gente colta
guardò a cotesta plebea, che parlava pure il linguaggio usato anche da lei
abitualmente; se la condusse in casa, e la
diede per ancella alla letteratura eletta. E ancella rimase, nonostante
qualche velleità passeggiera di far da padrona. Là dentro imparò a servirsi
delle forme ritmiche della sua signora; ma sempre si tenne fedele al
dialetto, ch'era per lei ciò che per Orrilo il capello fatale. Suo ufficio
principale fu di ridere e far ridere; era come il buffone dì casa, allegro
pressochè sempre, mordace assai spesso. Le stesse lagrime, che a volte ebbe
pure a versare, erano per solito accompagnate da modacci grotteschi. Bisogna
venire fino al nostro secolo per trovare una poesia milanese schiettamente
patetica; convien scendere fino alla Fuggitiva del Grossi. Della letteratura in cui il
linguaggio parlato si riflette tal quale, non possiamo dunque avere i
monumenti più antichi. Fra quelli che possediamo, il primo a me noto, se si
lascian da parte certe parodie forestiere, è il sonetto di Lancino Curti per
la fuga di Lodovico il Moro, pubblicato dal Cantú. Si tratta di un sentimento
popolare, e lo si è espresso nel linguaggio del popolo. Colle parodie sono da
mettere certi prodotti drammatici della prima metà del cinquecento. Nella
seconda metà la poesia milanese trova la sua vera strada, e si mette a
camminare per quella, con Bernardo Rainoldi, Gerolamo Maderna, Paolo Varese.
Non nomino con loro il Lomazzo, troppo povero, se gli si tolgono certe
poesie, attribuitegli per sbaglio. Durante un tempo assai lungo
la poesia milanese ebbe rivali, prima la poesia di quello strano sodalizio
che si chiamò l'Accademia della Val di Bregno, poi quella della Badia dei
Facchini dei Lago Maggiore. Erano rivali tuttavia con cui viveva in ottimo
accordo. Col Maggi, sul cadere del seicento, ebbe principio il periodo
classico; ma fu nel settecento, soprattutto nella seconda metà, che il
poetare milanese ebbe gran voga; sono tutti settecentisti e contemporanei il
Birago, il Larghi, il Tanzi, il Simonetta, il Balestrieri, per nominar solo i
maggiori. E i settecentisti son come il piedestallo su cui posa la statua del
poeta milanese per eccellenza: di quel vero miracolo che fu Carlo Porta. Al Porta sopravvive molti
anni il Grossi; al Grossi non molti il Rajberti. Degli epigoni è da ricordare
il Picozzi. Non bisogna dissimularsi che
la poesia milanese non ripiglierà mai più il posto tenuto fino a trent'anni
fa; ciò principalmente per effetto dell'unità italiana, prima voluta, poi
conseguita, e delle sue molteplici conseguenze. Unico genere che abbia ragion
d'essere nel presente, è la commedia, siccome rappresentazione vera ed
efficace della vita popolare. A lei sono da augurare lunghi anni di
prosperità, augurandole peraltro insieme che la fase in cui la vediamo
adesso, risponda, a dir molto, all'adolescenza. Ho fatto una corsa
attraverso alla letteratura dialettale, senza essermi chiesto prima, cosa
s'intenda per dialetto milanese. t vero che la domanda pare affatto oziosa;
ma in realtà poi non è. al contrario di tante e tante altre. C'è dunque il
milanese di Milano e quello non di Milano E forse elio Milano stessa parla
tutta ad un modo? C'è, per cominciare di qui,
il linguaggio delle Marchese Travasa e delle donne Fabie Fabron de-Fabrian;
linguaggio che doveva un tempo essere ben più diffuso di adesso, se il Maggi
lo mette in bocca a tutti i suoi personaggi femminili, che non siano volgo o
servidorame. Ma forse questo linguaggio, nonostante il paese dove ci occorre,
è piuttosto da classificare col persiano, o collo zulù, che coi dialetti
nostri; il suo più prossimo consanguineo dev'essere la lingua franca degli
scali levantini. Mettiamolo dunque in
disparte ; non per questo ci mancheranno le varietà. Così ad un indigeno di
Porta Garibaldi, olim Comasina, un nativo di Porta Cinna può parere, se non
proprio un cinese, certo tanto o quanto forestiero. E già dugent' anni
addietro il Meneghino del Maggi, che sapeva l'una e l'altra lingua e qualche
altra per soprappiù, si sentiva gran poliglotta: So ben
vari lenguagg. So quel
de Porta Snesa (1) Quel de
Porta Comasna, E quel anch più lontan
De messer (2) de Gagian. (Bar. di
Birb, 1. 4.) Oserei scommettere qualunque
cosa - tanto, non correrei nessun rischio di perdere - che la distinzione
datava da secoli e secoli, sicchè, mutati i nomi, Dante avrebbe potuto dir di
Milano quel ch'ebbe a dir di Bologna, dove riconobbe che parlavano
diversamente " Bononienses Burgi S. Felicis et Bononienses Strate
Majoris " (De vulg. El. 1. 9). Anzi, in generale, da un certo tempo
almeno, le differenze invece di accrescersi venute scemando il rimescolio
tanto maggiore d'elle persone ne ha cancellate parecchie, e le altre ha
ridotto a sfumature, non avvertibili più che da un orecchio ben esercitato. Usciamo dai bastioni, diamo
le spalle ai Corpi Santi, e qualunque direzione ci piaccia di prendere,
cammineremo un bel pezzo sentendoci risonare agli orecchi dei parlari, che
hanno troppa parentela col linguaggio della città, perché si possa negar loro
un posto al medesimo focolare domestico. Precisare i limiti della provincia
dialettale milanese, non è cosa facile, al meno per adesso. E poi anche qui,
come in ogni classificazione, ci sarà sempre una grande elasticità, a seconda
dei criteri che si vogliono adoperare. Però, invece di stabili ' re dei
confini miei, mi contenterò di riferir quelli segnati da due autorità. Il Cherubini, principe dei
milanesologi, cui per riuscire un dialettologo di prim'ordine mancò solo di
venire al mondo un po' più tardi, dice nella prefazione di quell'opera
insigne che è il Vocabolario milanese-italiano: " I monti della
Valsassina colle rive - lariense e leccense che s'hanno a' piedi, e l'Adda
fin presso Lodi per una linea quasi perpendicolare da tramontana a mezzodì;
la Valle Assina fin presso Come, il Lago Maggiore e il Ticino fin presso
Pavia per una curva declinante da tramontana a ponente e da ponente a
mezzodì, sono da considerarsi al grosso come confini naturali del parlare
milanese propriamente detto. " Il Biondelli poi, nel Saggio ben notevole
sui dialetti Gallo-italici, distinti i dialetti
lombardi in due gruppi, orientale ed occidentale, e posto il milanese come
principale rappresentante dell'occidentale, dice che esso, " oltre alla
provincia di Milano, occupa una parte della pavese fino a Landriano e
Bereguardo, e varcando quivi il Ticino,
si estende in tutta la Lomellina e nel territorio novarese compreso tra il
Po, la Sesia ed il Ticino, fino a poche miglia sopra Novara. "
Figuriamoci quante parlate distinte ci abbia a dare un territorio così
esteso! Fra tutto queste varietà
bisogna scegliere il milanese in senso stretto. Naturalmente sarà il milanese
di Milano, e non uno qualsiasi tra quelli del contado, ancorchè il primo
abbia fatto gitto di una parte del vecchio patrimonio, che gli altri invece
hanno saputo conservare. Se ha sciupato, era ne' suoi diritti; si capisce
bene che non era possibile di vivere in città colla parsimonia campagnuola,
senza mai rinnovare né una tavola, né una scranna! Una volta in città,
cercheremo, beninteso, il nostro linguaggio e dove lo si ha più costantemente
in uso e dove sono minori le occasioni delle mescolanze eterogenee, vale a
dire tra il popolo. E appunto perché regioni più abitate da popolani, il
Cherubini ci designerà come una specie di Montagna Pistoiese o di Firenze, le
Porte Ticinese e Comasina, il Verzee, e la più parte dei Terraggi. La fama della Porta Ticinese
è abbastanza antica. Già il Tanzi, nel piangere la morte del Larghi, dice che . . . .
. . . . se el scriveva in Milanes L'era
propi on poetta original, Sgiss,
sbottasciaa, e de Porta Zines. Il Maggi
invece glorifica il Borgh di Occh: No l'è
todesch forlocch, Ma l'è
bon milanes del Borgh di Occh. Ma più solida era la fama di
due località centralissime: Poslaghetto e Bottonuto. Così, per esempio, nel
Maggi stesso, Meneghino, che dovendosi fingere Pantalone parla un veneziano di
nuovo genere, merita d'esser detto, lui, un venezian del Bottonuu, e il suo
parlare un venezian del Poslaghett. E il Tanzi medesimo, poetando Sora i
Zerimoni, eselarna, infiammato d'entusiasmo: Viva el nost Poslaghett e el Bottonuu!
Pare che la gloria della
lingua sia emigrata adesso dal centro alla periferia; e c'è il suo bravo
perché. Al centro tuttavia cerca di ricondurla la sera il Teatro milanese. Il
quale, non contento di tenere acceso in città il fuoco sacro, vestale assidua
se forse non sempre incontaminata, da un certo tempo s'è fatto altresì
missionario, e porta il vangelo alle genti. Ma qui mi trovo addosso un
nugolo di cappe nere, che mi sostengono come qualmente il miglior milanese
non si parli al Verziere, non a Porta Ticinese, non al Teatro del Corso
Vittorio Emanuele, bensì alla Corte d'assise e alla Pretüra, da certuni di
loro che il volgo di corta intelligenza crede parlar italiano. Non hanno
tutti i torti: convengano peraltro che cotesto milanese schiettissimo con
velatura toscana, non è proprio un privilegio de-li avvocati. Io so, che lo
si sento anche al Consiglio Comunale, nei meeting, nelle adunanze degli
azionisti d'ogni genere e specie, luoghi tutti dove non c'è caso di certo che
un avvocato apra mai la bocca! Scherzi a parte, il milanese
italianizzato di quei nostri concittadini, che, " quando loro sono via
di Milano, tutti li prendono per fiorentini, " può essere uno strumento
utile per chi si propone di rilevare le peculiarità del dialetto, e
particolarmente della pronunzia. Sul fondo italiano quelle peculiarità
spiccano e si rendono evidenti, presso a poco come appaiono in una, pianura
allagata le vette degli alberi più alti, rimasto sole fuor d'acqua. Non di
tutti peraltro; chè certuni, abbattuti dall' impeto della corrente, giacciono
sul fondo. Non s'abbia paura ch'io
voglia metter qui lo schema fonetico e grammaticale del dialetto milanese;
appena incominciassi a parlare di sorde e di sonore, troverei sordo tutto il
mio uditorio, dato che n'abbia uno. Mi limiterò dunque a indicare, servendomi
del linguaggio comune, le caratteristiche più persistenti e appariscenti. E
badiamo: fin dove posso, le caratteristiche che distinguono il milanese in
mezzo alle parlate affini; non le molto a cui partecipa la sua numerosa
parentela. Noto avanti tutto la doppia
z, e in parecchi casi anche la scempia, ridotte a rasentare il suono della s.
Si faccia pronunziare a un buon ambrosiano bellezza, mazza, spazza, el
maester Pastizza, zia, e così via. Conscii di questa loro tendenza, i
milanesi cercano a volte di correggerla; e c'è chi va tant'oltre nel santo
zelo del bene, da pronunziare Pruzzia, e da meravigliarsi che non tutti
sappiano evitare quel grossolano sproposito, che è, il dir Prussia! Il cambiamento di l in r,
soprattutto tra vocali, resta sempre un fenomeno abituale, sebbene, per
influenza letteraria, vada ogni giorno scemando di estensione. Certo un tempo
nessuno avrebbe mai detto altrimenti che viorin, gorà, a quel modo che tutti
ancora pronunziano vari. Ma se l'r perdo del terreno conquistato, lo perdo
pollice per pollice, difendendolo da valoroso. La lotta dura da secoli colla
peggio dell'r, senza che questa abbia mai dato luogo nel suo animo allo
scoraggiamento. Miran, per esempio, si poteva già dire un posto abbandonato
fin dai primi del seicento; chè il Prissian Milanes osserva: " Quaichun
disenn Miran, se ben el è più da massè; che nun disem Milan. " Una caratteristica assai più
importante, dalla quale dipende in molta parte l'intonazione del dialetto, è
il suono della n scempia in certe posizioni, e specialmente della n in fine
di parola e preceduta da vocale accentata. L'n si fonde allora colle vocali
antecedenti, e costituisce con esse delle vocali nasalizzate, come in
francese. Il Prissian la paragona al suono che " fa el cordon che bat el
bombas: fron fron. " Una nasalizzazione analoga, sebbene meno completa,
s'ha anche nell'interno dei vocaboli, quando ad n seguono certe altre
consonanti. Ma accanto a questa n mezza
morta, come la chiama lo stesso Prissian, il dialetto milanese ne ha un'altra
viva vivissima. L'n segna ancora alla vocale accentata; ma sia poi anche
seguita da un'altra vocale: essa suonerà allora in modo, che l'alfabeto
italiano non ci permette di ben rappresentare nè con un' n sola, nè con due,
sebbene in mancanza di meglio. si sia pur costretti ad adottare o l'uno o
l'altro partito. Il femminile di bon non è nè bona nè bonna letti
all'italiana. L'n di questi casi è vibrata come la doppia toscana, ma più
breve e compatta; chè, invece di ripartire le sue articolazioni tra la vocale
antecedente e la seguente, le appoggia per intero alla seguente, quasi fosse
scritto bo-nna. E nella stessa posizione suonano analogamente per =ioni
analoghe anche altre consonanti: inse-mma, gne-cca, e-eco, (eco), Euro-ppa,
poe-tta. In fatto di vocali, il
milanese ne possiede due ignote al toscano: 1' ö, e quell'ü così caro a molti
(si può dire a tutti, fino a pochi decennii fa) da non volersene staccare,
qualunque linguaggio essi parlino. Ma quello esercitato su questi due suoni è
un condominio diviso con tanta gente elle nel caso nostro è anche troppo
l'averlo menzionato. Metto poi subito in disparte le vocali atone, che
presenterebbero fatti molteplici, ma alquanto sbrigliati e d'importanza
minuta, e mi contento di chiamare al redde rationem le toniche ; toniche,
s'intendo, perchè portan l'accento, non perchè abbiano affinità nessuna col
Fernet dei Fratelli Branca. La prima cosa che balza agli
occhi, o piuttosto agli orecchi, è il molto affetto ai suoni larghi; gli o e
gli e aperti abbondane, nel milanese. Sono aperti ordinariamente gli o
seguiti da n vibrata, da gn, da m, da tt: Marchionn, personna; besogn,
vergogna; nomm, Romma; rott, sott, nagotta. Cito solo esempi - eccetto il
primo, che è una storpiatura locale di Melchiorre - dove, e il toscano, e
anche il più dei dialetti affini al milanese, contrappongono all'o aperto un
o chiuso, discendente legittimo di un o lungo latino, o addirittura di un u.
Stretto si mantiene nondimeno l'o di insomma, bott bótte e non so che altro.
In altre condizioni i progenitori decidono della sorte dei tardi nipoti;
aperti quindi pocch, socca, foss, or, confort, sporg; chiusi mocch mozzo,
mocc mozzicone di sigaro, bocca, ross, occor, descors. Un o aperto notevole
per la sua peculiarità si ha in giò, giù. Viceversa, sono da avvertire,
sebbene non punto peculiari a Milano, gli o stretti delle prime persone
singolari foo, voo, gh'hoo, seguito, quest'ultimo dal gran codazzo dei
futuri; inoltre poo, coo capo. Nelle stesse condizioni
dell'o è pur largo l' e; ma questo in molte altre ancora. t largo in
generale, ancorchè provenga da un e lungo o da un i, quand' è seguito da
consonante più o meno doppia, da gn, e da gruppi di consonanti di cui la
prima sia s: scenna. menna, ingegn, colmegna, medemm, insemma, mansuett,
mett, giughett, pess, istessa, bellezza, fregg, oreggia, todesch, cresta. L'e
è largo del pari nelle terminazioni degl'infiniti della seconda coniugazione:
avè, vedè, piasè, ecc. t stretto invece, tralasciando altri casi, quando ha
dopo di sè una n scempia, non solo se questa è isolata e sale tutta per il
naso, ma anche se la obbligano a prendere un po' più la strada della bocca
altre consonanti che le tengan dietro: ben, presenza, dent, vend, scendera,
ecc. Intrecciamo allo stesso modo un'm, e l' e suonerà chiuso anche allora:
temp, november, e così via. Perchè l'ö non abbia a
dolersi d'una dimenticanza assoluta, lo noterò aperto in poeu, a differenza
di più altri dialetti lombardi. Oltre alla larghezza e
strettezza del suono, è da considerar bene nelle vocali accentate la
quantità. Sicuro: i nostri ragazzi, che nelle scuole strillan tanto contro la
maledizione latina delle brevi e delle lunghe, non pensano elle nel milanese
s'avrebbero a rigore, almeno tre categorie: brevi, lunghe e medie. In fondo,
è questa la particolarità che il Cherubini vuol significare, quando distingue
e un suono vibrato, uno rimesso ed uno stemperato. Del fatto avevano peraltro
mostrato d' accorgersi anche prima gli scrittori, adottando il sistema di
segnare certe vocali coll' accento grave, di mettere ad altro il
circonflesso, e di scriverne molte duplicate. Dei tre gradi possono dar
esempio fà, ciallad, veritaa ; pè, sped, pee; goss, occor, poo; finna, rid, vorii;
brutt, rud, luu; foeura, foeugh, fioeu (plurale). Ridotte a due sole le
classi, comprendendo nella categoria delle lun-he anche le medie, che in
sostanza le appartengono, si può dire che, di norma, sono brevi le vocali
seguite da una doppia o da certi gruppi di consonanti, lunghe quelle seguite
da una consonante semplice o da certi altri gruppi. Si noti, per esempio, la
lunga di sporg, incorg, confort. Quanto alle vocali in fin di parola, parte
sono brevi, parte lunghe, a seconda dell' origine. Per il suono, l' a lungo
volta la sua faccia dalla parte dell'o sulla bocca di chi parla sbottasciaa;
tanto più, quanto maggiore la lunghezza. Nelle scritture del secolo passato a
quest' a corrisponde il segno ae. Ora, ravvicinando 'a ciò il fatto, elle
realmente cotali a suonano e in certi dialetti rustici, se ne argomenta con
apparenza di verità, da alcuni, per esempio, dal Cherubini, che nel secolo
passato la medesima pronunzia fosse pure in città; da altri che gli scrittori
della città affettassero l'uso del contado. Mi permetto di dissentire da
entrambe le opinioni. La seconda conterrebbe forse molto di vero riferita al
secolo XVII, all'età classica di Beltramm de Gagian e della sua degna
consorte Beltraminna. Ma una volta che Meneghin Tandoeuggia, ambrosiano puro
sangue, milanes de Milan, ebbe dato il bando al suo predecessore re, il
dialetto della letteratura fu universalmente quello della città; del
Bottonuto e del Poslaghetto in particolare, come s'è visto. E del resto
l'affettazione contadinesca non era per nulla generale nemmeno nell'età
antecedente; altro è, si badi, la letteratura milanese, altro quella, tutta
artifiziale e punto popolare, dell'Accademia di Val di Bregno e della Badia
dei Facchini del Lago Maggiore. Fatto sta che già il Prissian, primo varo
trattatista del nostro dialetto, vuol propriamente seguire e insegnare l'uso
cittadino. E siamo al 1606. Quanto all'ipotesi che supporrebbe avvenuto nella pronunzia un
cambiamento radicale, la credo da rifiutare assolutamente per ragioni
linguistiche e storiche. Ravvolgo le prime nella maestà del silenzio; e mi contento
di notare rispetto alle altre, che cotesto m è rappresentato da un semplice a
nella scrittura del seicento e del cinquecento. Gli è ben vero che il
Prissian distingue per r a due pronunzie diverse : la larga e la stretta. Ma
la larga è per lui quella di sarà, sarà e serrare, di sara, sala e chiudi,
ossia la breve. La stretta è quella "che i Latin antigament ghe diseven
l'a longa, es la scriveven dobla inscì: amaabam. " L'm non è dunque, a
mio vedere, che un semplice segno grafico, poco felicemente scelto, e forse
non abbastanza felicemente surrogato ai due a, suggeriti appunto dall'uso
antico latino, o piuttosto dal passo del Prissian. Certo peraltro il bisogno
di una mutazione e' era; come c'era per l'ö, che in grazia di un. falso
concetto della sua natura, si scriveva ancora nel secolo scorso con ou. Ma anche qui fu un rimedio
poco felice quello di accumulare tre lettere per un suono solo, introducendo
quell' incomodissimo oeu. Ohimè! dove vado? Quo, Musa, tendis?
Nei regni della noia, vorrei
dire.... se non ci avessi condotto i lettori già da troppo tempo! Vediamo almeno di essere
spicci di qui innanzi; dirò delle flessioni solo le cose veramente
caratteristiche. Le più spettano al dominio dei nomi. Va notata anzitutto la
formazione del plurale dei femminili in a non accentato, che sia preceduto da
consonante o da consonanti. Si perde la vocale che c'era in origine
all'uscita, e le consonanti restano allo scoperto: finezza, scoeura, porta.,
mamma, donna, balarinna, fanno finezz, scoeur, port, mamm, donn, balarinn.
Come si vede, l'n mantiene la vibratezza che ha al singolare; anzi, mantiene
anche quella che al singolare ha perduto in molti diminutivi; sicchè, per
esempio, mammin da mammina - non ispento, del resto, neppur esso - fa
mamminn. Tosa è anomalo: fa tosann. A proposito di diminutivi,
sono ancor più osservabili i plurali in itt, la più patte per nomi maschili,
e unicamente per questi in origine. Parecchi si trovano avere adesso il
singolare in in; per esempio, basitt, piscinitt, dencitt; ma in realtà sono
ancor essi plurali di un singolare in ett, perdutosi per istrada, e non
perduto da tutti. Così omitt conserva il suo bravo omett; e cereghitt può
sempre vantare, accanto a cereghin, il cereghett pizzamochett e il Cereghett,
" Cavoe Dominus. " Questa rispondenza, ett
singolare, itt plurale, è lo strascico di una legge ben più generale, che era
un tempo in vigore in gran parte della valle del Po. Per essa l'e accentata
dei nomi maschili, al plurale diventava sempre i (3). La legge a poco a poco
ha perduto la sua forza, non altrimenti da ciò che accade a quelle dei
codici; e anche coloro che le si conservarono docili fino a tempi vicini,
hanno cominciato ad alzare la cresta. Certo ben pochi direbbero adesso col
Porta cavij, basij, scinivij; e pochi anche usij, registrato come vivo dal
Cherubini. Si conserva paricc, plurale di un singolare che il dialetto non
ha; e sembra voler passare alle età future come singolarissimo esempio di fedeltà
il pronome quist. Un arcaismo di questo genere, che tutti abbiamo
continuamente in bocca senza accorgercene, è, credo, il Bij della Contrada di
Bij; giacchè il casato della famiglia che dette nome alla via era
probabilmente tutt'uno con quello, pur comunissimo, di Belli. Bigli deve
essere un'italianizzazione altrettanto dotta come sarebbe remissegli,
pivegli, oppure l'Osteria dei tre Baccelli. Nel verbo, noto di passaggio
hin, sono, anomalo si, ma non punto quanto lo fa parere senza sua colpa
quell'h peggio che ostrogota; inoltre rammento la flessiorio, spesso violata,
del condizionale: ev, isset, av; issem, essev, issen. E alla sintassi manderò
di lontano un semplice saluto, rammentando la negazione no, posposta al
verbo: Se po no, se po no!... Sulle differenze tra questo no che si pospone,
e il minga che si prepone, potrei dir molte cose, conchiudendone poche; caso
rarissimo! Ma scusi, mi sento dire. Non
s'accorge di fare come quando, in una certa società numerosa, il signor X
discorre un' ora filata sul suo argomento favorito della concia dei cuoi? O
non sarebbe meglio parlar di qualcosa dove ognuno potesse dire la sua? Dica
per esempio, se le par bello o brutto il milanese; ne determini, se tiene ai
paroloni, il valore estetico! Ecco un punto, su cui tutti hanno idee proprie. Le hanno e le hanno avute.
Un' idea l'aveva anche Dante, che si permette di strappare, come erba
cattiva, insieme col bergamasco, anche il milanese, e ricorda con una tal
quale compiacenza una poesia, elle già allora correva in dileggio di questi
dialetti: Intel'
ora del vesper, Ziò fu
del mes d'ociover.... E allo stesso modo non si
vergognò di pensare Luigi Pulci, o che il 22 di settembre del 1473 ebbe la
sfacciataggine di mandare e da Milano a Lorenzo de' Medici due sonetti obbrobriosi
(4), di cui non si laverebbe la colpa con tutta l'acqua del Seveso, del
Lambro, dell'Olona. Nell'uno sono gli abitanti che più specialmente si
prendon di mira; e solo una terzina deride il parlare: E' dicon
le carote i gniffi, i gnarri Et l'uve
spicciolate pinceruoli, Da far,
non che arrabiare (5) i cani, i carri. Ma
l'altro è pressochè tutto un'ingiuria al dialetto: Ambrosin,
vistu ma il più bel ghiotton, Quel
fiorentin ch'è in chà messer Pizzello ? El non
manza ravizze : mò zervello, Ch'el si
butta per zerto un gran poltron. Non li
san le ravizze mica bon. El son
tutte materie! El dise chello Zanzator
che Fiorenza è mò più bello, Che si
vorrava darli un rnostazzon! El
passa! Ha, fiorentin, va scià chillò! El
guarda, in fe de dè ! Ma tasi ti, Che'l
non z'à ancor vezzuti il chò di bò! Et chi
credessi un certo odor che è qui Quasi
rosea plantata in Jerichò Fussi,
io nol crezzo; ch'io lo so ben mi! Ma egli
è ben ver così, Ch' e
milanesi spendon pochi soldi, Et mangion cardinali et manigoldi Et ferrà
coldi coldi! Tanto
ch'io serbo all'ultimo il sonetto, Ch'io
mangerei forse io del pan buffetto. In fondo al sonetto il Pulci
mette questa postilla per Lorenzo: " Nota che cardinali è
una cierta vivanda di più cose in guazzetto : manigoldi le bietole: le
ferruche son succiole. Ala tu se' milanese vecchio. " Da questo ultime parole
risulta che Lorenzo de' Medici sapeva il milanese; ciò vale a consolarci un
poco delle insolenze di messer Luigi, il quale poi, per giusto castigo del
cielo, volendo dileggiare il dialetto nostro, è riuscito a fare dei versi
molto debolucci. La parodia poteva essere, non solo più corretta, ma anche
più spiritosa. Ecco venir terzo il Bandello:
" Il parlare milanese ha una certa pronuncia, che mirabilmente gli
orecchi degli stranieri offende.... " (Parte I, nov. 9). Misericordia ! E nessuno si
leverà a difesa? - Milano tutta, come un sol uomo. Lasciam parlare il
Prissian: " Par la proùma (6) al besogna savè che el nost lenguag al è
el più pur, el più bel, e il miò che se possa trovà. " E anche poco
prima aveva detto: " Parlo dela parnonzia del parlà Milanes, ch'alè el
più bel che sia al mond ; e si avess temp, e'vel farev vedè ; salv la lengua
fiorentena, ch'al'è nassù dala nosta, ma che lor ai l'an lechà inscì on
pochin, coni' es fa ona sposa. " Qui, per verità, si fa una
restrizione alquanto pericolosa, che darebbe forse motivo sufficiente di
chiamare il Prisciano stesso davanti al tribunale della Santa Inquisizione.
Egli puzza un po' dell'eresia di quel traditore di padre Branda, elle un
'secolo e mezzo più tardi ritornava di Toscana così innamorato o infatuato
del parlare di colà, da gettar fango in viso al linguaggio materno in un
certo dialogo fatto recitare in pubblico dai suoi scolari. Ed ecco accendersi
una guerra terribile, nella quale la prima lancia contro il Branda fu rotta
dal Parini, oscuro abate tuttavia. Le ingiurie - usiam parole proporzionate
alla grandezza dei fatti - riempirono l'aria; l'inchiostro scorse a ruscelli;
e ben cinquanta opuscoli a stampa, vomitati dalle bocche da fuoco delle due
fazioni, rimasero sul campo, a testimonio della gran lotta. Chi li vuol
vedere, vada all'Ambrosiana, e chieda della Brandana. Troverà cose abbastanza
divertevoli. Tacque finalmente la guerra;
ma le cause e i sentimenti che l'avevano suscitata non vennero meno negli
animi, e si perpetuarono anche nei posteri. E così più di mezzo secolo dopo
si riaccendeva, se non la guerra, un duello, quando un articolo del Giordani
nella Biblioteca italiana faceva montare al Porta la mosca al naso, e lo
spingeva a mitragliare l'oltraggiatore dei dialetti colla scarica dei dodici
sonetti famosi all' abaa Giavan. Ma lasciando gli scherzi e
le simpatie: o chi aveva ragione in coteste lotte? La ragione e 1 1 torto non
si dividono mai in maniera così netta, che tutto il torto sia da una parte,
tutta la ragione dall'altra, dice il Manzoni. E il Manzoni appunto, milanese
e affezionatissimo al milanese, così dotto nel suo dialetto da aver pochi
pari, assegnava di sicuro una parte di ragione, nel secolo passato al Branda,
nel presente al Giordani. I fatti lo dimostrano; giacchè egli fu per suo
conto un sostenitore e propugnatore ardentissimo ed efficacissimo di idee molto
analoghe alle loro. Qui peraltro corriam rischio
d'impigliarci nella quistione della lingua, molto più complessa di quella che
s'aveva per le mani. Rientrando nel nostro guscio, diciam pure a erto che nel
giudizio sulla bellezza e bruttezza dei dialetti in generale e di un dialetto
in ispecie, l'abitudine, ossia il pregiudizio, entra per quattro quinti. A
molti letterati tutti i dialetti paiono brutti, compreso il loro proprio;
alla generalità, e particolarmente al volgo, paiono brutti tutti, a eccezione
del loro. Quindi il continuo darsi la baia da paese a paese per ragion del
parlare. Da ciò alcuni spassionati
conchiudono, elle dunque tutti i dialetti sono brutti e belli ad un modo. Non
assento : per quanto il mi piace e non mi piace renda malagevole il giudizio,
c'è bene e anche un grado assoluto e variabilissimo di bellezza e bruttezza.
Il difficile sta a poterlo determinare. Non pretenderò già io di
esser da tanto; a ogni modo alcune cose le devo dire. Per quel che spetta ai
suoni, il milanese avrebbe una ricchezza invidiabile; ma non ne cava forse
tutto il partito che potrebbe, giacché certi elementi prevalgono un po'
troppo, con danno della varietà; e non di quella soltanto. Ricorrono troppo
abbondanti le vocali a lungo strascico, nasalizzate e non nasalizzate, che
danno al parlare un carattere lento. Nei verbi riesce adesso d'impaccio
l'accumularsi dei pronomi, promosso da cause per così dire rettoriche, più
che da una vera necessità e dal logorio delle forme; chè, quanto a forme, il
milanese è forse tra i dialetti cittadini dell'Italia settentrionale uno dei
meno impoveriti dal tempo. Di derivazioni il dialetto milanese è copioso,
tanto per i sostantivi che per gli aggettivi. E quanto al dizionario, non
s'ha proprio motivo di portare invidia a chicchessia. Se dai caratteri per così
dire fisici, si volge l'attenzione ai morali, oh, come ha ragione il Tanzi di
esclamare: Gh'emm ona lengua averta, avert el coeur!
Il milanese è realmente il
linguaggio di un popolo dal cuore aperto, bonario, inclinato alla benevolenza
verso ognuno, amante della buona tavola e in generale di tutti i piaceri del
senso, lieto, proclive alla sguaiataggine più che alla vera arguzia, ricco di
un buon senso alla mano. Un linguaggio fine il milanese non si potrebbe dire:
efficace, è di sicuro. Il popolo che lo parla ci si riflette dentro tutto
quanto, colle sue virtù e colle sue debolezze: di gran lunga più numerose le
prime - si per metta di dirlo ad uno non nato all'ombra del Duomo - che le
seconde. Questi caratteri interni si
mantengono inalterati, nonostante la variazione delle fattezze esteriori.
Giacchè, come s'è accennato in più casi, il dialetto si trasforma, e sempre
s'è venuto trasformando in tutto quanto il corso della sua vita. Ben si sa: la trasformazione è condizione
essenziale dell'esistenza. Una delle mutazioni di maggior rilievo avvenuta in
tempi vicini a noi, riguarda il passato remoto, cominciato a cadere in disuso
verso la metà del secolo scorso, rappresentato da pochi superstiti al
principio del nostro, e quindi sceso nella tomba fino all'ultimo suo
rampollo. Vens, diss, voeuss, spongè ecc. ecc., farebbero adesso inarcare le
ciglia al più ambrosiano tra gli ambrosiani. Non si riguardi questa
sparizione come un sintomo pericoloso per la vita del dialetto; lostesso
fenomeno sta succedendo, mentre parliamo, nel francese, senza che ciò faccia
nascere nessuna inquietudine -per la sua preziosa salute. Piuttosto danno da
pensare i mutamenti non pochi che si producono nei suoni. Per esempio la z,
che aveva preso molte volte il posto del e e del g dinanzi ad e e ad i, è
ricacciata di nuovo dal ritorno vittorioso dei fuorusciti. Nessuno dice più
zent, nessuno Porta Zines; pochi zerusegh, suzzed, suzzess. Qui, tanto e
tanto, s' ha il trionfo d'un vecchio diritto lungamente conculcato; ma è
effetto di prepotenza se molte terminazioni ben legittime in cc sono bandite,
o almeno confinate tra la gente bassa, dice, scricc, facc non si sentono più;
non frequentemente lecc, succ; e c'è chi spinge lo zelo fino a dire per tecc
una parola che non mi permetterò qui di pronunziare. Presi un per uno cotali
mutamenti non significherebbero nulla; ma invece destano l'allarme, se si
considerano uniti insieme e si riferiscono alla loro causa unica ed
universale, che è un graduale ravvicinamento alla lingua letteraria o al
toscano. Non ci sarebbe da dolersene, so il ravvicinamento potesse metter
capo all'identificazione; ma facciam conto che ciò sia per accadere ad una
distanza infinita, là dove s'incontrano, al dire dei matematici, e si danno con
un bacio il " ben arrivato, " anche due parallele. E la lingua letteraria non
si contenta di pervertire la fonetica del dialetto; ne perverte ancor peggio
il vocabolario. Essa v' introduce così alla sordina un numero infinito di
vocaboli, ciascuno dei quali circuisce una voce indigena, le somministra un
lento veleno, e non ha pace finchè non la vede morta e non ne raccoglie
l'eredità. E dire che i tribunali non hanno pene per cotesti misfatti! 0 non
pare evidente che le lingue abbiano diritto ad essere rispettate al pari
delle persone? Io non capisco perchè, mentre è severamente vietato di corrompere il toscano col mescolarvi
voci, forme e pronunzie dialettali, abbia poi ad esser lecito di corrompere
il dialetto con mescolanze toscane. Dunque l'uguaglianza di tutti dinanzi
alla legge è proprio un'irrisione? Si parli italiano o milanese secondo che
pare e piace: ma l'italiano italianamente, e -anche il milanese
milanesemente! È inutile: so s'ha a cuore
la salvezza del dialetto bisogna, mentre non è ancor troppo tardi, pensare a
un provvedimento. E il provvedimento lo propongo io medesimo, dando prova con
ciò di un eroismo, che solo gli amici miei possono valutare. Esso dovrebbe
consistere in una multa per ogni delitto di lesa meneghità. In altre città il
prodotto della multa potrebbe servire a ristorare le finanze municipali; qui
da noi invece, dove, grazie a Dio e ai nostri amministratori le finanze sono
in complesso abbastanza prospere, converrebbe convertirlo in premi per coloro
che parlan più corretto. Ed ecco che, cercando piombo, ci si troverebbe aver
rinvenuto dell'oro; giacchè, incamminatici per provvedere all'incolumità del
dialetto, ci si vedrebbe arrivati inaspettatamente alla soluzione della
questione sociale. Chè, siccome in generale gli abbienti parlano scorretto, e
relativamente corretto i non abbienti, si riuscirebbe ad un capovolgimento
nella distribuzione delle ricchezze; i ricchi diventerebbero poveri, e i
poveri ricchi; che è l'unica soluzione del gran problema atta a contentare
davvero, non dico chi predica le riforme stando comodamente in alto, ma chi
le chiede dal basso. Pio RAJNA. Note: (1) Cinese, cioè Ticinese;
non Asnesa, per carità, come fu spiegato recentemente! (2) Massaro, contadino. (3) V.i Saggi Ladini
dell'Ascoli nel t. I dell'Arch. Glottologico; passim. (4) S'hanno singolarmente
straziati a pag. 86-87 delle edizioni dei sonetti del Pulci e del Franco. Io
li ho trascritti direttamente dall'autografo, che è alla Nazionale di Firenze,
e posso così darne la lezione genuina. (5) Prima il Pulci aveva
seritto, se non erro, impazzare. (6) Si legga proeuma. |
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